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Dubai, Imprenditore Scambiato Per un Narcotrafficante

Una storia dal finale dolceamaro quella di Domenico Alfano, l‘imprenditore scambiato per un narcotrafficante a Dubai e costretto a restare ingiustamente 32 giorni in carcere.


Viviana Lanza — Il Riformista — Gennaio 2020


Sapere moglie e figli fuori, da soli in un paese straniero, e ritrovarsi rinchiuso in una cella di un carcere negli Emirati Arabi, mica ad Halden, in Norvegia. Roba che al confronto anche Poggioreale, con i suoi problemi di sovraffollamento e vivibilità, sarebbe stato meglio.

Mangiare crema di fagioli ogni giorno per trentadue giorni ed essere circondato da sconosciuti senza sapere quanto tempo dovrà ancora passare prima di rivedere la luce e la libertà. Avere soltanto il telefono per comunicare con l’esterno, ma mica a disposizione sempre: pochi secondi e solo se autorizzati. E sapere di essere vittima di uno scambio di persona, di un grosso errore quindi, senza che questo sembri scalfire le convinzioni di chi ha proceduto all’arresto.

Ci sono voluti trentadue giorni per accertare che l’uomo arrestato a Dubai non era il broker del narcotraffico ricercato in tutto il mondo dalle autorità giudiziarie di Catania e Napoli. Trentadue giorni per verificare che in cella c’era un ristoratore, sì napoletano di origine come il latitante da catturare, ma con una storia e un’identità ben diverse. E allora eccolo l’incubo in cui è precipitato Domenico Alfano, il napoletano arrestato tra il 19 e il 20 dicembre scorso a Dubai, perché scambiato per il narcotrafficante Bruno Carbone, e rimesso in libertà soltanto ieri. Come è potuto accadere?

L’interrogativo, per ora, resta con il punto di domanda. Si parla di scambio di persona, un’espressione semplice per descrivere una situazione complessa e drammatica. Di certo la vicenda ha tutti i requisiti per diventare un caso giudiziario. Si vedrà.

Con una breve telefonata al suo avvocato, il penalista Stefano Zoff, Domenico Alfano ha comunicato di essere stato scarcerato. “Finalmente…”. Sospiro di sollievo. Ma quello che nelle scorse settimane era salito alle cronache come il “giallo di Dubai” può dirsi davvero risolto?

Troppe le ombre su una vicenda che sa di intrigo internazionale e che può sollevare un caso destinato a superare i confini locali. C’è un cittadino italiano detenuto per errore per trentadue giorni: possono bastare solo le scuse? Con il suo avvocato, Alfano potrà valutare eventuali iniziative da intraprendere. Per ora non si sa se, uscito dal carcere, volerà a Panama o farà tappa in Italia. Intanto ci si chiede come sia stato possibile incorrere in un simile errore tenuto conto che Bruno Carbone, il vero latitante, in passato era stato già arrestato e fotosegnalato (l’ultima volta nel 2012 in occasione della sua scarcerazione).

L’avvocato Zoff ha spiegato che nemmeno la somiglianza tra Alfano e Carbone fosse tanto scontata: l’altezza, per esempio, che è un fattore impossibile da modificare chirurgicamente a differenza dei lineamenti e di altre parti del corpo, non combaciava perché Alfano è più basso di Carbone di almeno dieci centimetri.
In questa storia restano aspetti ancora oscuri e buchi nella ricostruzione dei fatti. Proviamo a ripercorrerli.

Domenico Alfano ha quarant’anni, è nato e cresciuto nel centro storico, non lontano dal rione Sanità, e da quasi quindici anni vive e lavora a Panama. Lì gestisce una pizzeria, ha sposato una donna colombiana e ha due figli, di 13 e 9 anni. Con la famiglia decide di trascorrere le vacanze di Natale e Capodanno a Dubai. Si imbarcano il 18 dicembre con un volo di linea francese. Fanno scalo in Francia e riprendono il viaggio atterrando a Dubai poco dopo le quattro del mattino, ora locale. Facile immaginare la scena: marito, moglie e figli si incamminano con i bagagli verso l’uscita dell’aeroporto quando due uomini li avvicinano e si fanno seguire in ufficio. È l’inizio dell’incubo.

Domenico Alfano viene separato dal resto della famiglia. Gli chiedono più volte le generalità – come ha raccontato in una lettera dettata dal carcere e diffusa tramite il fratello -, e gli controllano bagaglio e documenti. Si può ipotizzare che chi ha proceduto all’arresto abbia avuto qualche informazione per intervenire sospettando la possibile presenza del latitante in aeroporto e che qualcosa non sia poi andato nel verso giusto se è vero che l’uomo fermato non era Bruno Carbone ma Domenico Alfano.

Sta di fatto che Alfano continua a ribadire la propria identità ma finisce ugualmente dalla stanza dell’aeroporto a una cella del carcere. L’Interpool è al lavoro. Alfano viene interrogato con un cellulare dotato di traduttore istantaneo, viene fotosegnalato e sottoposto a esame delle impronte digitali e a prelievo per il test del Dna. Confida di tornare libero nel giro di poco, ma così non accadrà. Nel frattempo in Italia, come spiega l’avvocato Zoff, si viene a sapere ufficialmente dell’arresto soltanto due settimane dopo, agli inizi di gennaio.

La notizia viene data al Tribunale di Catania, che nei confronti del narcos latitante aveva emesso un’ordinanza per una sentenza passata in giudicato, e alla Procura di Napoli che indaga su Carbone in due paralleli filoni di inchiesta. Si attiva quindi anche la Dda di Napoli, e si apprende che l’uomo in carcere sostiene di non essere Carbone. I carabinieri svolgono accertamenti, viene perquisita la casa di Alfano. E si scopre che in carcere c’è effettivamente Alfano, non Carbone. Caso risolto, ma non chiuso.

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