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Cassazione: Italia Pecora Nera Della Giustizia Civile

Italia pecora nera della giustizia civile: siamo al 103° posto (su 189).

Dal Corriere della Sera del 14/05/2014 – di Pietro Trimarchi

Italia pecora nera della giustizia civile, serve un filtro per i ricorsi in Cassazione.

Caro direttore, la classifica di Doing Business 2014 circa l’efficienza del sistema giudiziario in materia contrattuale, elaborata dalla Banca mondiale, pur promuovendo l’Italia al 103° posto (su 189) dal precedente 160°, la colloca ancora molto in basso nella classificazione, mentre Francia, Germania e Austria si collocano entro i primi 7 posti, Regno Unito e Spagna intorno al 6o°, e l’Italia è preceduta da più della metà dei Paesi del mondo, compresi molti che siamo portati a considerare con (più o meno giustificabile) sufficienza. Si può anche avere qualche dubbio sulla validità del metodo impiegato, ma, in ogni modo, è innegabile che la durata media dei giudizi civili italiani sia eccessiva e molto superiore a quella dei Paesi europei a noi vicini ed è certo che ciò è una causa (non l’unica) che scoraggia gli investimenti, e in particolare gli investimenti esteri, in Italia. Gli interventi legislativi per rimediare all’eccessiva durata delle cause civili sono stati numerosi negli ultimi anni e per lo più rivolti a modificare le regole del procedimento, allo scopo di abbreviarlo.

Fra le modificazioni spiccano l’introduzione di preclusioni alle novità in corso di giudizio e la limitazione della collegialità delle decisioni. Occorre peraltro non perdere di vista che le esigenze di semplificazione e celerità sono in qualche modo antitetiche con quelle di approfondimento dialettico, rivolto al raggiungimento di un giusto risultato, mentre (è il caso di dirlo?) la qualità delle decisioni non è meno importante della loro celerità: si tratta, dunque, di trovare un efficiente coordinamento fra le due esigenze contrapposte. Una più rigorosa limitazione della possibilità di ricorrere in Cassazione sembra però opportuna, mediante una regola che, sul modello di quanto disposto in Paesi a noi vicini, e previo il necessario aggiustamento dell’art. nr della Costituzione, limiti la possibilità di ricorso in Cassazione alle cause che attengano a diritti fondamentali, o propongano questioni di maggiore importanza di principio o di valore economico non trascurabile. Proseguendo nella linea seguita finora, di semplificare il procedimento nella speranza di abbreviarne i tempi, ma con il rischio di sacrificare la qualità del servizio, si propone ora l’idea di una motivazione analitica della sentenza obbligatoria solo quando sia richiesta dalla parte che, conosciuta la decisione, voglia impugnarla.

La proposta considera dunque la motivazione solo come elemento necessario per il controllo della decisione in sede di impugnazione e non considera che, prima ancora e soprattutto, l’obbligo di motivazione opera quando si è ancora nella fase della decisione, costringendo chi giudica a una riflessione più attenta, precisa e completa. Perciò la proposta in questione rientra fra quelle che al fine della celerità sacrificano la qualità delle decisioni, con il rischio, oltre tutto, di aumentare la frequenza delle impugnazioni, contrariamene a quello che si vorrebbe. Lo stesso è a dirsi per l’idea, che si sente ventilare, di un’ulteriore limitazione del principio della collegialità delle decisioni. La proposta sembra muovere dal falso presupposto che la collegialità sia di fatto ridotta a una mera formalità, mentre invece vi è ragione di ritenere che, almeno nelle cause che presentino maggiore interesse, il dibattito, quantomeno fra giudice relatore e presi-dente, sia normale, e costituisca per i giudici di prima nomina un importante complemento della loro formazione, ad integrazione di quella puramente libresca.

Un giudice che, fin dall’inizio della propria attività, si sia abituato a pronunciare da solo sentenze immediatamente esecutive, anche su questioni complesse, senza essere tenuto a presentare il proprio punto di vista in una seduta collegiale, senza affrontare il confronto con richieste di chiarimento, dubbi e proposte dei colleghi, e senza neppure il confronto con le proprie riflessioni occasionate dalla necessità di redigere una motivazione analitica, rischia di sviluppare un atteggiamento mentale che non giova alla qualità delle decisioni. D’altra parte, l’ambito di applicazione del giudizio collegiale fu già ridotto in larga misura nel 1999 e non sembra che abbia determinato un aumento della produzione annua di sentenze. La conclusione è che, salva l’opportunità di ridurre le possibilità di ricorso in Cassazione, la strada delle semplificazioni del procedimento a costo di compromettere la qualità del servizio non dovrebbe essere ulteriormente percorsa.

I ritardi non derivano dalle attività processuali, bensì dalla permanenza dei procedimenti in lista d’attesa, a causa dell’ingente arretrato (circa 5 milioni di procedimenti civili), e le misure qui criticate non possono giovare in modo apprezzabile al suo smaltimento. Si può piuttosto sperare nelle misure organizzative recentemente previste dal ministro. Vi è poi il problema del numero enorme, e abnorme, delle liti, che è alla radice del problema, e su di esso si potranno fare altre considerazioni e proposte.

Professore emerito di Diritto civile all’Università Statale di Milano.

Pietro Trimarchi

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