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L'Omicidio (Senza Morto) Di Avola

L’omicidio (senza morto) di Avola: il romanzo “Giallo D’Avola” di Paolo Di Stefano fa luce sul caso siciliano del ’54 che divise l’Italia.

L’Associazione desidererebbe conoscere nomi e cognomi dei giudici che hanno seguito l’affaire di Avola, su cui Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera, ha scritto il libro “Giallo d’Avola”, editore Sellerio.

ANTEPRIMA UN ROMANZO CHE MESCOLA DOCUMENTI ORIGINALI E FICTION. UNO SPACCATO DELLA SICILIA DI QUEGLI ANNI

L’omicidio (senza morto) di Avola
Testimoni Due contadini che affermavano di aver visto il presunto assassinato vivo e vegeto furono arrestati finché non ritrattaronoPaolo Di Stefano racconta il caso siciliano del ’54 che divise l’Italia Il caso Salvatore Gallo fu accusato di aver ucciso il fratello con cui viveva. Un delitto figlio di un odio implacabile covato per anni.

«Nell’interno dell’isola la gente vive pressappoco come due o tre secoli fa ? scriveva su “La Settimana Incom” Sandro Volta ?. Tutte le mattine i contadini (…) fanno 10 o 15 chilometri di strada per andare a lavorare nei feudi. Le donne lavorano in casa, tranne l’epoca dei raccolti che vanno aiutare gli uomini nei campi. Anche i bimbi cominciano a otto o nove anni ad andare nei campi a lavorare. Dormono sette o otto persone per stanza, spesso insieme al mulo, e in molte case non c’è nemmeno la latrina…».In una campagna di quella Sicilia arcaica e miserabile, alla contrada Cappellani di Avola, a sud di Siracusa, la mattina del 6 ottobre 1954, vicino a una masseria, sul viottolo che conduceva alla cisterna, una cagna si fermò a leccare una coppola insanguinata. Poco più tardi, il maresciallo maggiore dei carabinieri Antonino Luminoso si chinava sul cappello e sulla pozza di sangue chiedendosi dove fosse finito il corpo, mentre la vedova di Paolo Gallo, il padrone del berretto, strillava disperata: «Maresciallo, maresciallo Luminoso, u mmazzaru, u mmazzaru, u dìssiru e u fìciru!», Il «Giornale di Sicilia» di quella mattina era dedicato al ritorno di Trieste all’Italia e l’inviato raccontava di quando il mese prima, sotto i suoi occhi, Umberto Saba, aveva scritto una poesia:

«Avevo una città bella tra i monti / rocciosi e il mare luminoso / Mia perché vi nacqui, più d’altri mia /che la scoprivo fanciullo, e adulto / per sempre a Italia la sposai col canto». Pareva una notizia come tante, quell’«ammazzatina» senza cadavere, in un Paese che allora contava un omicidio l’anno ogni 19.983 abitanti, vale a dire oltre cinque volte più di oggi. Tanto più in una terra violenta come da Sicilia. E l’arresto del fratello e del nipote dello scomparso, Salvatore Gallo e il giovane Sebastiano, che aveva addosso dei pantaloni macchiati di sangue che giurava fosse sangue di pecora, fece chiudere il caso piuttosto velocemente. Pareva tutto chiaro, tutto semplice, tutto lineare. Un delitto come tanti, frutto d’un implacabile odio covato fra i fratelli, «tutt’e due nati sui monti Iblei, a Palazzolo Acreide, 670 metri sul livello del mare, tutt’e due, a modo loro, teste dure di montagna».

Abitavano nella stessa casa, «divisi da un muro; solo Sebastiano dormiva nella pagliera, ma tutti avevano la cucina in comune e questo era uno dei guai che causavano disastri, perché si azzannavano perfino per l’uso del fuoco. Convivenza difficile, litigiosa, zuffa perenne, minacce pesanti, ritorsioni dispettose e crudeli, galline spennate e tirate di collo, cani azzoppati, maiali torturati e squarciati, parole grosse che volavano, qualche volta accompagnate da scariche di legnate, e a subire era quasi sempre il fratello più vecchio e più fragile, Paolo, la buonanima. Ogni volta partivano denunce e ciascuno aveva il suo avvocato per farsi valere…». Il processo fu quasi senza storia. Salvatore Gallo si beccò l’ergastolo e fu mandato a scontarlo nella galera sull’isola di Ventotene, a due giorni di corriera e poi di treno e di nuovo di corriera e poi di traghetto da Avola, dove si sarebbe ammalato al punto di finire sulla sedia a rotelle. Il figlio Sebastiano, accusato di avere aiutato il padre a far sparire il corpo sotterrato da qualche parte, fu condannato a 14 anni. E a nulla servirono le testimonianze di due contadini, Salvatore Masuzzo («un settantenne che non si levava la coppola, la giacca di lana e il panciotto neanche d’estate») e Giuseppe La Quercia, che giurarono di avere visto il «cadavere» vivo e vegeto: «Me ne stavo lì a travagghiari quando vidi transitare u Sacchiteddu ovvero il Gallo Paolo, che io non sapevo essere dato per scomparso e morto ammazzato. Ci aveva uno zaino sopra la spalla e la giacca sul braccio, e portava il suo portamento magro e giallognolo…».

Erano chiaramente amici degli imputati decisi a toglierli dai guai, pensò la Corte. E i due testimoni furono arrestati e messi dentro finché non ammisero di essersi sbagliati.Eppure quel delitto dove tutto pareva così chiaro, così semplice, così scontato, era destinato a diventare uno dei casi giudiziari più intricati e appassionanti della storia d’Italia. Capace di spaccare i lettori in colpevolisti e innocentisti. Ma soprattutto di obbligare il Parlamento a cambiar la legge per ripristinare la giustizia. Una storia straordinaria, che Paolo Di Stefano ha voluto ricostruire passo passo, mischiando i documenti dell’epoca e la fantasia, la perizia psicologica e l’ironia, l’italiano elegante e il dialetto siciliano, nel romanzo Giallo d’Avola. Dove la trama del thriller, la descrizione dei personaggi («nella contrada lo chiamavano u Sacchiteddu per via dell’aspetto simile a una bisaccia vuota»), le indagini poliziesche, i colpi di scena, il finale a sorpresa che sarebbe un delitto rivelare ai lettori, sono anche l’occasione per raccontare com’era la Sicilia di quegli anni Cinquanta. Una terra bella e tragica, dove nei paesini più sperduti gli spettatori abituati da decenni a portarsi la sedia impagliata in piazza per assistere alle Opere dei Pupi con Orlando e Rinaldo («Ollannu e Rinardu») scoprivano la televisione, Mike Bongiorno e il primo quiz di enorme successo, Lascia e raddoppia.

Dove i cinegiornali mostravano il «Giro Vespistico dei Tre Mari», esaltando con voce tonante come per quegli avventurosi in sella a quel simbolo di piccola ricchezza borghese non fosse «difficile mantenersi sul filo di marcia dei 50 chilometri orari», sfiorando donne sicule dai costumi antichi col secchio sulla testa: «Tornando a casa queste donnette avranno qualcosa da raccontare». Dove la madre di Gesualdo Bufalino, come avrebbe raccontato lo scrittore nella sua ultima intervista, tolse il saluto a una vicina di casa che l’accusava di averle restituito un uovo più piccolo di quello avuto in prestito.Era una Sicilia agreste e dura di «pezzenti che mangiavano solo olive e cipolle, gabellotti e braccianti in movimento che già lavoravano dalle quattro del mattino rientrando la sera dopo avere zappato la terra la giornata intera. E nelle case, in pochi metri quadrati, c’era il letto matrimoniale, la culla per il piccolo, una scatola di legno con i polli dentro; e sopra, sul solaio di tavolato, dormivano i figli più grandi con i topi e gli scarafaggi. L’asino e il carretto l’avevano i massari o i massarotti, ma i braccianti si ritenevano contenti se potevano permettersi una vecchia bicicletta macchiata di ruggine. Era raro però sentire un lamento, una doglianza sulle loro condizioni di vita, accettate come fossero fatalità». Una vita da ergastolani, dentro e fuori dal carcere. Dove, al di là delle responsabilità penali e dei ruoli avuti nell’intrigo, erano un po’ tutti vittime. RIPRODUZIONE RISERVATA

Stella Gian Antonio

Pagina 41
(11 aprile 2013) – Corriere della Sera

Fonte: La Repubblica.it

Gallo, il morto-vivo di Avola

Il 28 marzo 1958 la Corte d’ appello di Catania conferma la condanna all’ ergastolo inflitta a Salvatore Gallo – riconosciuto colpevole dell’ uccisione del fratello Paolo – e aggiunge un anno di isolamento diurno per l’ occultamento del cadavere. Sono trascorsi quattro anni da quel giorno di ottobre quando Sebastiano Gallo, 16 anni, si presenta ai carabinieri di Avola, provincia di Siracusa, raccontando di aver visto per terra delle chiazze di sangue e un berretto, proprio nei dintorni della proprietà dello zio Paolo, del quale non si hanno più notizie da un giorno. Sul posto, in contrada Cappellani, i carabinieri vi trovano il padre del ragazzo. Seduto in silenzio accanto a una cisterna, l’ uomo conferma la denunzia del figlio:

«Qui – dice il contadino – ci sono macchie di sangue, e quello è il berretto di mio fratello». Poi accompagna le guardie in un viottolo, poco lontano dalla casa, che porta a un abbeveratoio: c’ è l’ asina e la mucca del fratello scomparso, pietre aguzze intrise di sangue (due litri in tutto) e un basco blu. Cominciano le ricerche. Cisterne, caverne, anfratti, valli, dirupi e torrenti: niente, di Paolo Gallo non c’ è traccia. Certo che se ha perso tutto quel sangue, non può che essere morto. Come? L’ hanno ammazzato? Chi è stato? Sua moglie, Cristina Giannone, non ha dubbi: è Salvatore l’ assassino, l’ aveva detto tante volte e l’ ha fatto. Del resto, racconta la donna, i fratelli si odiavano. Furiosi litigi erano all’ ordine del giorno e così pure diverbi e querele, spaventose minacce e terribili zuffe a colpi di pietra e di scure. Quasi mai al mattino mancavano, ora nell’ orto dell’ uno ora in quello dell’ altro, polli sgozzati, cani feriti e maiali senza gambe. L’ odio tra le due famiglie era arrivato a un punto di non ritorno. Tanto che quando morì la moglie di Salvatore, Paolo pensò bene di festeggiare l’ avvenimento con un pranzetto d’ eccezione. E così le indagini si orientano fin da subito contro Salvatore e suo figlio, a casa dei quali i carabinieri sequestrano una camicia bianca e due paia di calzoni sporchi di macchie sospette.

«Siamo innocenti», gridano i Gallo, subito interrogati e sottoposti a procedimento penale: ora dovranno rispondere di omicidio premeditato in danno del fratello e zio. A nulla vale la testimonianza di due braccianti di Palazzolo, che davanti al giudice giurano di aver visto coi loro occhi lo scomparso aggirarsi nelle campagne di Noto: processati per falsa testimonianza, i due testi vengono prosciolti solo dopo che hanno ritrattato. Rinviati al giudizio della Corte d’ Assise di Siracusa, invece, Salvatore e Sebastiano. E nonostante in sede dibattimentale gli imputati continuino a protestarsi innocenti, il 21 dicembre 1956 vengono condannati: Salvatore Gallo all’ ergastolo, suo figlio a 14 anni e 8 mesi di reclusione. Segue l’ appello, a Catania: assolto Sebastiano, ergastolo confermato per suo padre. L’ avvocato Salvatore Lazzara, di Lentini, ai tempi partigiano nella brigata Garibaldi e poi assessore provinciale in quota Pci, insiste sulla insufficienza delle prove, sulla mancanza di un’ adeguata causa a delinquere e, soprattutto, sul fatto che quello che si sta celebrando è un processo “indiziario”. Ma la sentenza redatta dalla Corte presieduta da Lucio Barbagallo spazza via ogni dubbio: è vero – scrivono i giudici – che il cadavere non si è trovato, ma «non è del tutto esatto dire che manca», perché «quella considerevole quantità di sangue umano trovato sul sentiero della proprietà Gallo costituisce notevole parte di un cadavere». Di chi? «Considerato – continua la sentenza – che di lì era transitato Paolo Gallo e che poco dopo era scomparso, non essendo potuto egli volatilizzarsi, deve necessariamente ammettersi che il suddetto cadavere, la cui presenza è largamente rivelata dalla enorme massa di sangue, non può che essere quello dello scomparso».

Dunque Paolo Gallo, «bonaccione e mite qual è da tutti descritto», è «morto ucciso». Da chi? «Sicuramente da Salvatore Gallo. Per vendetta. Perché Salvatore, invidioso e prepotente, quale unico dei fratelli che non fosse proprietario, ma solo amministratore di quelle terre, vede con gelosia il fratello Paolo aggirarsi da padrone nel fondo». E come l’ ha ammazzato? «A colpi di pietra, come è denunciato dal copioso sangue versato e dalla presenza in terra di due pietre aguzze inzuppate anch’ esse di sangue». E il cadavere? Perché non si trova? «è da presumere che sia stato trasportato a dorso di mulo, probabilmente lontano e forse anche buttato nelle acque del mare di Avola. Sono presunzioni, è vero, ma non occorre accertarle di più, perché, come si è detto, la certezza dell’ uccisione è denunziata dal sangue e dalla scomparsa dell’ uomo». Salvatore Gallo viene spedito nel penitenziario di Ventotene: nell’ isolotto al largo di Gaeta rimarrà fino al 12 ottobre 1961.

Cioè fino a quando suo fratello Paolo non risusciterà dai morti, scovato dall’ inchiesta di Enzo Asciolla, cronista-detective de “La Sicilia”. L’ ex defunto ha la barba lunga ed è magrissimo. Ma è vivo: si nascondeva nelle campagne di Ragusa. E ora? Il “morto-vivo” finisce in manette (per calunnia aggravata), mentre il falso omicida atterra libero a Catania e ritorna a casa scortato dai carabinieri e da un nugolo di fotografi. Ma la festa dura poco: in carcere l’ ergastolano innocente si è ammalato e quando arriva il risarcimento per l’ ingiusta carcerazione è troppo tardi. Intanto, fra gli addetti ai lavori, si scatena una vivacissima disputa sul «rigore della prova», la «revisione della sentenza» e le «maggiori garanzie che si debbono concedere alle parti». La stampa nazionale registra lo «sconcerto» del mondo giuridico e politico. Adesso il coro è unanime: c’ è qualcosa che non va nel sistema processuale italiano. 8. Continua

SALVATORE FALZONE

Fonte: Corriere della Sera

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