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Una madre ottiene finalmente giustizia dopo 10 anni per un errore medico. Il governo italiano inoltre dovrà risarcirla per la durata anomala del processo.


Gaetano de Stefano, La Città di Salerno, 10 ottobre 2020

La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato il Governo italiano, per violazione dell’articolo 8 della Convenzione, al pagamento di 12mila euro , più l’importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta, per danno morale, e di 6mila euro, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dal ricorrente, per le spese.

E questo in quanto la Corte ha ritenuto “lacunosi i procedimenti interni, non avendo l’ordinamento giuridico risposto in maniera sufficientemente tempestiva”. In pratica ad essere finita sul banco degli imputati per poi essere condannata è stata la lentezza della giustizia.

Il ricorso. A ricorrere alla Corte europea sono stati Carla B. e Gianluca F., madre e figlio entrambi di Vibonati, rappresentate dall’avvocato Giovanni Concilio , per presunte negligenze mediche da parte del personale sanitario. E, soprattutto, i ricorrenti hanno puntato il dito contro le autorità nazionali che non “hanno rispettato il proprio obbligo di condurre un’indagine imparziale e approfondita, rapida e adeguata, allo scopo di individuare i responsabili degli atti medici che hanno provocato la disabilità del figlio”.

In particolare è stata denunciata “la lunghezza del procedimento penale, avviato il 16 gennaio 1999 e conclusosi più di 10 anni dopo, con la decisione della Cassazione del 13 luglio 2009”. E pertanto “rammentando gli obblighi di natura procedurale in materia di salute” i ricorrenti hanno ritenuto “che le autorità interne avrebbero dovuto procedere con maggior celerità, vista la gravità delle conseguenze che hanno interessato la vita del secondo ricorrente”.

La vicenda. La storia risale al 1994, quando la signora Carla si ricoverò all’ospedale di Sapri, nel reparto di ostetricia e ginecologia, a seguito della rottura prematura della membrana uterina. Il 20 dicembre, però, le sue condizioni peggiorarono e i medici decisero di procedere al cesareo.

Il neonato fu poi trasferito nel reparto di patologia neonatale e di terapia intensiva dell’ospedale di Battipaglia, dove rimase ricoverato fino al 18 gennaio 1995. La diagnosi di dimissione indicò una «Rds ed encefalopatia ipossico-ischemica di quarto grado» che aveva provocato una paralisi spastica.

La denuncia. Il 16 gennaio 1999 fu presentata una denuncia alla procura della Repubblica presso il tribunale di Sala Consilina, per i reati di falso in atti pubblici e negligenze mediche per tutta la durata del ricovero e al momento del parto. Sulla base dei risultati di una relazione peritale, il giudice dispose il rinvio a giudizio di vari membri dell’équipe medica dell’ospedale di Sapri.

L’iter giudiziario. In primo grado furono condannati, dal tribunale di Sala Consilina, i due medici a 2 mesi con sospensione condizionale per il reato di lesioni gravi, e al versamento di una provvisionale di 52mila euro, rinviando al giudice civile per la liquidazione definitiva dei danni subiti dai ricorrenti.

Il tribunale ritenne provata la responsabilità penale dei medici “considerando che la sofferenza fetale del secondo ricorrente era dovuta al ritardo con cui era stato eseguito il taglio cesareo”.

L’appello, nel 2005, però, ribaltò la sentenza e assolse i medici. Decisione quest’ultima che fu confermata dalla Cassazione, nel 2009.

La causa civile. Resta ancora pendente il ricorso civile, iniziato nel 2011, quando fu intentata i ricorrenti un’azione contro l’ospedale di Sapri e i due medici condannati in primo grado dal tribunale di Sala Consilina, per ottenere il risarcimento del danno.

Nel 2018 il tribunale di Nocera Inferiore ha respinto la domanda in quanto “pur rammentando che il procedimento penale non produceva l’effetto di precludere l’azione civile” il tribunale ha basato la sua valutazione sui “risultati dell’istruttoria e delle perizie in sede penale, e ha concluso per l’assenza di responsabilità civile delle parti convenute: il nesso di causalità tra le omissioni e le lacune denunciate, e le conseguenze sullo stato di salute del secondo ricorrente, non era sufficientemente accertato”. Contro questa decisione è stato presentato appello e il procedimento è ancora in corso.

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