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morte ospedale risarcimento negato aivm
morte ospedale risarcimento negato aivm

Risarcimento negato dal giudice per i figli della vittima. Non c’è nessuna prova di un collegamento tra errori sanitari e la morte dell’uomo.


Sandra Figliuolo, Palermo Today, 8 Gennaio 2021

I figli del paziente di 75 anni chiedevano quasi un milione per i danni patiti, secondo il tribunale civile di Termini Imerese però non vi sarebbe la prova di un nesso causale tra i presunti errori dei sanitari ed il decesso dell’uomo. Era stato ricoverato nel 2009 al Cimino e in giudizio era finita l’Asp.

Sarebbero emersi “errori nella gestione clinica da parte dei sanitari” e “un considerevole ritardo” nel trasferimento del paziente in un altro ospedale, ma per il giudice civile del tribunale di Termini Imerese mancherebbe la prova “del nesso di causalità tra la condotta dei medici ed il successivo decesso” del paziente.

Per questo è stata rigettata l’istanza dei figli di G. S., morto a 75 anni, nel lontano marzo 2009, dopo essere stato in cura all’ospedale Cimimo di Termini e al Civico di Palermo, che chiedevano un risarcimento all’Asp di quasi un milione di euro per il danno patito.

La sentenza è stata emessa dal giudice Laura Petitti, che ha accolto le tesi dell’avvocato Diego Ferraro, che difende l’azienda sanitaria provinciale, dalla quale dipende l’ospedale di Termini.

A citarla in giudizio erano stati la moglie di G. S., deceduta nel 2017, cioè durante il processo, e i suoi tre figli, che ritenevano i medici responsabili della morte dell’uomo e chiedevano un risarcimento complessivo di 956.375 euro. Sono stati invece condannati a pagare le spese processuali, per circa 4 mila euro.

G. S., il pomeriggio del 10 marzo del 2009, era caduto mentre si trovava in un suo terreno ed aveva battuto la testa. I suoi parenti lo avevano così portato a casa, dove era stato visitato dal suo medico di famiglia, che aveva poi consigliato di accompagnarlo al pronto soccorso del Cimino.

Qui, alle 17.30, il medico dell’accettazione “riscontava trauma cranico minore con amnesia anterograda e ferita lacerocontusa nucale, che veniva suturata – come si legge nella sentenza – e veniva inoltre rilevato un rallentamento dell’eloquio”.

Il paziente era stato sottoposto ad alcuni accertamenti e alle 22.30, anche “per la constatazione di peggioramento del quadro clinico (compromissione della coscienza e stato di coma)”, i medici avevano fatto altre verifiche, al termine delle quali si rendeva “necessaria una consulenza neurochirurgica”.

A quel punto i sanitari avevano dimesso il paziente, con “diagnosi di coma da emorragia cerebrale post traumatica regione occipitale”, e avevano disposto il suo trasferimento nel reparto di Neurochirurgia dell’ospedale Civico di Palermo, dove G. S. era arrivato alle 2.16.

La diagnosi era stata confermata e il paziente “era stato sottoposto a trattamento neurochirurgico urgente di craniectomia ed evacuazione degli ematomi cerebrali”. L’intervento era durato circa quattro ore e “risultava all’esito tecnicamente riuscito”.

Il paziente era stato quindi trasferito in Rianimazione e, dopo qualche giorno, pur restando in coma, avrebbe mostrato un lieve miglioramento, tanto da riuscire a respirare da solo. Il 22 marzo, però, erano sorti nuovamente problemi respiratori e il 23 il paziente era morto per arresto cardiocircolatorio.

Secondo i suoi parenti, G. S. sarebbe deceduto a causa della “negligenza dei medici del pronto soccorso di Termini”, per “un errore diagnostico dopo una tac” e perché i sanitari non avrebbero prescritto una consulenza neurologica, che avrebbe consentito di capire la gravità delle lesioni riportate dal paziente. Tanto che – in base alla loro versione – l’uomo sarebbe stato “abbandonato per dieci ore in una saletta, senza che i medici fornissero alcuna informazione”.

Il consulente tecnico nominato dal giudice avrebbe riscontrato effettivamente degli errori nell’operato dei medici. L’analisi della documentazione clinica “fa emergere – si legge infatti nella sentenza – errori nella gestione clinica da parte dei sanitari del pronto soccorso del Cimino”, che non avrebbero riconosciuto le lesioni traumatiche craniche e cerebrali e non avrebbero richiesto “repentinamente una valutazione neurochirurgica”. Vi sarebbe stato poi “un considerevole ritardo” nel trasferire il paziente al Civico.

Tuttavia, per il consulente, “non è possibile stabilire una chiara, altamente plausibile, relazione di causa-effetto tra tali comportamenti e l’evoluzione clinica sfavorevole ed il successivo decesso del signor G. S. poiché a) non è certo che una diversa condotta avrebbe prodotto un diverso esito clinico, b) il ritardo nel trasferimento alla Neurochirurgia non sembra aver condizionato un’evoluzione peggiorativa del quadro clinico poiché dopo il trattamento neurochirurgico di evacuazione il paziente ha presentato un miglioramento dello stato neurologico, recuperando la capacità di respiro spontaneo. Il tempo trascorso cioè non ha condizionato l’irreversibilità del danno indotto dall’ematoma”.

Per il consulente, quindi, “non è possibile ragionevolmente e con elevata probabilità stabilire, come la normativa per l’attribuzione di colpa professionale richiede, che gli errori rilevati nella gestione clinica del paziente abbiano contribuito al deterioramento delle condizioni cliniche ed al decesso dello stesso né che un diverso comportamento dei sanitari o un più tempestivo accesso al trattamento chirurgico, avrebbero potuto condizionare un migliore esito clinico.

Pertanto, non potendosi rilevare elementi di colpa, cade il presupposto del risarcimento del danno a carico dei sanitari e dell’Asp.

Il giudice conclude affermando che “le conclusioni del consulente tecnico vengono interamente condivise dal tribunale, ciò che impone, in carenza di prova del nesso di causalità tra la condotta dei sanitari del pronto soccorso dell’ospedale Cimino (pur censurabile, per quanto esposto) ed il successivo decesso di G. S., il rigetto della richiesta di risarcimento.


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