A cento anni dalla nascita del grande scrittore Leonardo Sciascia tratteggiamo le sue idee sulla Giustizia.
Gli anni Ottanta segnano per l’Italia una stagione giudiziaria del tutto particolare: i grandi processi al terrorismo rosso e nero, il caso Tortora e il Maxiprocesso a Cosa Nostra celebrato a Palermo occupano la scena del dibattito nazionale.
Sullo sfondo, i tempi sembrano ormai maturi per la stesura definitiva di un nuovo codice di procedura penale che abbandoni (finalmente) il modello inquisitorio fascista e abbracci il modello accusatorio: un codice più garantista, più attento ai diritti dell’indagato e dell’imputato.
Tra gli intellettuali italiani, una voce si distingue chiaramente nel dibattito: è quella di Leonardo Sciascia, un intellettuale che non ha paura di andare controcorrente.
Quest’anno cade il centenario della sua nascita: cosa rimane del garantismo di Sciascia? Proviamo a rispondere a questo interrogativo rileggendo il caso Tortora e il suo corsivo sul Corriere dal titolo “I professionisti dell’antimafia”.
- Introduzione
- Il Caso Tortora: il Pentitismo e il Garantismo
- I Professionisti dell’Antimafia: le Parole di Sciascia e la Polemica Mediatica
Introduzione
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, in provincia di Agrigento. Il suo è uno spirito libero, illuminista: è tra gli intellettuali di maggior respiro del secondo Novecento. Uno scrittore suo grande amico, Gesualdo Bufalino, amava dire che Sciascia fosse la coscienza del Paese: questo Paese però, al giorno d’oggi, ha tutta la faccia di essere un Paese mancato, come titolava un libro di Guido Crainz.
Una delle rivoluzioni mancate è sicuramente quella della giustizia. I garantisti si contrappongono ai manettari, in un’eterna lotta tra guelfi e ghibellini. L’eredità di Sciascia non è stata raccolta, se non parzialmente e in modo distorto: il garantismo sembra essere rimasto un involucro vuoto, una bandiera sotto cui andar alla guerra, ma contro chi?
Il garantismo di Sciascia era di matrice costituzionale, non ideologica: il garantismo è l’unica idea di giustizia accettabile dal consesso civile. Sciascia non ne fa questione di guerra tra fazioni, ma di interpretazione autentica della Costituzione.
Vediamo ora due temi che occuparono la penna dello scrittore racalmutese: il primo è il caso Tortora, il secondo, si può dire, costituisce il fil rouge di tutta la produzione letteraria di Sciascia, ossia il rapporto tra potere giudiziario e potere mafioso.
Il Caso Tortora: il Pentitismo e il Garantismo
Enzo Tortora fu al centro di una incredibile vicenda giudiziaria nei primi anni Ottanta: accusato da un pentito di Camorra di essere il punto di riferimento della Nuova Camorra Organizzata per lo spaccio di cocaina nel nord Italia, Tortora venne arrestato, con le manette bene in vista a favore dei fotografi, e tradotto in carcere, dove trascorse 271 giorni.
All’epoca Tortora era un notissimo presentatore Tv, conosciuto ed apprezzato per la sua moderazione e professionalità: tra i suoi estimatori vi era anche Leonardo Sciascia, che lo conosceva e stimava “senza averlo mai visto in televisione”.
Dalle colonne del Corriere della Sera lo scrittore indicò come la fiducia cieca accordata dai magistrati inquirenti alle parole dei pentiti potesse condurre a risultati paradossali e dannosi, come l’arresto di un cittadino innocente e totalmente estraneo ai fatti ascrittigli come Enzo Tortora.
Si chiese Sciascia: quanti Enzo Tortora ci sono in Italia? Quanti ordini di cattura sono stati firmati con leggerezza? Quante vite sono state irrimediabilmente segnate da esperienze traumatiche con le forze dell’ordine e con il potere giudiziario?
Sciascia auspicava, come il partito Radicale e una parte dell’opinione pubblica, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati per cercare di arginare un fenomeno così dannoso e pericoloso, ma che, fatalmente, non produceva conseguenze sulle toghe negligenti, colpevoli della rovina di persone innocenti.
Questo auspicio si concretizzò nel 1988 con la legge Vassalli. Ma il problema non si risolse con il fantomatico colpo di bacchetta magica: pochi anni fa, un ex pm antimafia poteva permettersi di dire che solo nella sua nuova veste di avvocato ha maturato la consapevolezza dei possibili danni di un ordine di cattura errato.
Il problema non era dunque solo legislativo, ma culturale. Il dibattito sul tema, tuttavia, sembra ancora radicato sulle posizioni dei guelfi e dei ghibellini: spetta al lettore sotto quale vessillo porre i “garantisti” e i “manettari”. Accanto a una moderna politica legislativa occorre un dibattito moderno, non tanto nei mezzi di comunicazione, quanto nelle idee.
I Professionisti dell’Antimafia: le Parole di Sciascia e la Polemica Mediatica
Sciascia ha scritto di mafia, e lo ha fatto in un periodo in cui dell’organizzazione mafiosa si negava persino l’esistenza. “Il giorno della civetta” è del 1961, “A ciascuno il suo“del 1966.
Il 10 gennaio 1987 Sciascia vergava un duro editoriale, che assumeva il titolo, non scelto da lui, de “I professionisti dell’antimafia”, in cui, iniziando il ragionamento dalla degenerazione della lotta alla mafia condotta dal fascismo e dal prefetto Mori in Sicilia negli anni Venti, poneva in luce la nascita di un nuovo potere che si faceva beffe della Costituzione e delle leggi e che non accettava che alcuna voce critica si levasse ad analizzare il suo operato: il potere dell’antimafia.
Sciascia, nel suo articolo, denunciava come la politica, in particolare la politica palermitana (Sciascia allude, ma non fa nomi) e la magistratura (qui, invece, Sciascia nomina Paolo Emanuele Borsellino, appena nominato Procuratore di Marsala) usassero la sacrosanta lotta alla mafia come scudo per mascherare l’una le proprie inadempienze amministrative, l’altra le proprie storture procedimentali.
Tralasciando l’attacco mosso alla politica, Sciascia sottolineava come il dottor Borsellino fosse stato nominato Procuratore “per merito, date le sue inchieste sulla mafia” al posto di un altro magistrato, più anziano di servizio, ma inesperto di processi di mafia.
Sciascia faceva presente come questo criterio risultasse del tutto nuovo e richiamava l’attenzione ai principi costituzionali e regolamentari: la sua denuncia intendeva essere non un attacco a Borsellino (di cui, tra l’altro, dichiarava di non sapere chi fosse), ma un appello al rispetto del diritto, che non poteva essere piegato a piacimento sia dal CSM per decidere discrezionalmente la carriera dei magistrati sia dai magistrati stessi che “pietivano processi di mafia” come strumento sicuro per fare carriera.
Da qui il titolo dell’articolo: i professionisti dell’antimafia, ossia coloro i quali usano lo strumento dell’antimafia per fare carriera e non come il fine stesso della carriera di magistrato.
Se nell’immediato, e ancora oggi, l’attacco di Sciascia venne frainteso e strumentalizzato per delegittimare il lavoro di Borsellino e del pool antimafia, non si può dire che nel lungo periodo risultò profetico: il CSM, quasi esattamente un anno dopo, adottò il criterio dell’età per nominare il dottor Antonino Meli come nuovo Procuratore capo di Palermo, al posto del dottor Giovanni Falcone, più giovane, ma sicuramente più meritevole.
Sciascia non temeva che le sue parole venissero strumentalizzate, sapeva che ad ogni scrittore toccano solo 25 buoni lettori. Il fraintendimento delle sue parole da parte di chi poteva intenderle, però, molto probabilmente costò il posto al dottor Falcone e la fine del pool antimafia.
Forse è lecito pensare che non ci fu solo una colpa generica in questo fraintendimento, ma anche dolo. Sciascia, infatti, richiamava ai principi del diritto che sono gli unici in grado di garantire la terzietà ed evitare lo spettro di occulte influenze nelle decisioni che riguardano la Giustizia.